Come sarà già capitato a molti durante queste settimane di allarme da Coronavirus, mi sono ritrovato in fila davanti ad un supermercato a fare la spesa. Quasi tutte le persone indossavano delle mascherine e cercavano di rispettare il metro di distanza. Il sole di fine pomeriggio, scendeva lento a riscaldare la nostra attesa e avvolgeva con i suoi raggi i presenti. Da uomo di teatro, non ho potuto fare a meno di notare come questa scena, nella sua naturalezza e straordinarietà, avesse in realtà un valore altamente simbolico e concreto. Questi corpi, infatti, nella loro silenziosa staticità, mi raccontavano un’altra storia rispetto a quella che stiamo vivendo: questi corpi mi parlavano di “presenza”. Non una presenza qualunque però. No. Una presenza reale, manifesta, che si riappropriava delle proprie regole e del proprio spazio. Se c’è una cosa, infatti, che questo difficile momento ci sta insegnando, è proprio questo: il tempo dell’attesa, della distanza e del rispetto. Sono queste le tre condizioni sine qua non attraverso cui la presenza può manifestarsi. Per presenza non intendo qui un semplice apparire e scomparire di forme, quanto piuttosto una concreta manifestazione dell’Altro colta nella sua essenzialità. Grazie a questa distanza, ciascuno si riappropriava del proprio corpo e delle propria dimensione di spiritualità. Per la prima volta forse, al di fuori dell’ambito teatrale in cui di solito vado cercando questa sorta di principio di sacralità della vita, riuscivo a distinguere l’Altro, nelle sue varie forme, nelle sue sfaccettature. La distanza, che in questo periodo viviamo come forma di costrizione e di limitazione della libertà personale, diventa dunque la modalità attraverso cui riappropriarsi di uno sguardo diverso, meno caotico, più umano forse. E’ lo sguardo che sa riconoscere la differenza e che, allo stesso tempo, riconosce se stesso, nella propria distanza, nel proprio limite.
Un altro aspetto di questa spiacevole situazione che ciascuno di noi sta vivendo, è il tempo dell’attesa. Quante volte di fronte ad un ufficio pubblico, ci siamo trovati ad attendere con impazienza che la fila scorresse, che il tempo passasse più velocemente, perché c’era qualcos’altro da fare di più urgente, di più importante. Ebbene, adesso l’attesa è divenuta il nostro pane quotidiano. Molti di noi – chi ovviamente non è costretto ad andare a lavorare a causa della situazione contingente – si ritrovano “rinchiusi” nelle loro case, all’interno di una quarantena forzata che riduce gli spazi e a volte anche la mente e il respiro. Eppure non possiamo fare altro. Non ci è dato sapere quando ritorneremo ad una “normalità”, quand’è che potremo finalmente ritornare a circolare liberi per le nostre strade e città. Ebbene, questa attesa ci sta insegnando che cosa sia il tempo. Ci sta insegnando a vivere la vita con un altro ritmo, che non è più quello degli impegni quotidiani o della frenesia, ma un tempo molto più sottile e a tratti impercettibile: quello della nostra interiorità. A volte fa paura. Non si è abituati a stare così a diretto contatto con se stessi. Eppure, anche questa situazione può insegnarci qualcosa. L’attesa può divenire un punto di forza invece che di debolezza. Siamo costretti a guardarci dentro di più, a fare i conti con l’incertezza, a coltivare virtù che credevamo ormai sparite, come la pazienza, la tolleranza, il rispetto reciproco. “Ci vuole pazienza”. Questa era una delle tipiche frasi che sentivamo pronunciare di più dai nostri nonni e mai come in questo periodo ne sto sperimentando di nuovo l’importanza, la validità. Quella pazienza che appunto i nostri vecchi conoscevano bene, loro che hanno convissuto con la guerra, con la fame, con la povertà. Purtroppo, sono proprio loro le prime vittime di questa tragedia e se desideriamo davvero onorarli in qualche modo, forse è proprio rispolverando qualche perla della loro saggezza, come questa, che stiamo reimparando sulla nostra pelle.
Concludo, dicendo che questa attesa e questo silenzio, non ci devono però far scordare anche di tante altre tragedie che sta vivendo l’umanità. Non ci dobbiamo dimenticare delle migliaia di profughi che sono morti in mezzo al mare per trovare un briciolo di speranza dall’altra parte della Terra. Non ci dobbiamo dimenticare di quei tanti profughi che aspettano ormai da anni lungo i confini di un’Europa troppo stretta per poter sopravvivere a se stessa. Non ci dobbiamo scordare di tutti quelli che, a differenza di noi che ce ne stiamo in quarantena ma al caldo dentro le nostre case, una casa non ce l’hanno più perché distrutta sotto qualche bombardamento o persa a causa dell’indigenza. Insomma, se c’è una lezione che questa difficile situazione ci sta davvero insegnando, è proprio questa: non è più il tempo di girarsi dall’altra parte. Il tempo dell’indifferenza, dell’ipocrisia, dell’egoismo, è finito.
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