C’è un momento prima del primo passo che condurrà l’equilibrista sul lato opposto della sua traversata. È in quel momento che si concentrano tutta la sua attenzione e le sue forze, l’energia racchiusa in un gesto, in una sospensione del tempo prima del tempo. Mi vengono in mente altre figure simili a questa. Penso agli atleti prima di una gara, al tuffatore professionista che se ne sta ad osservare il vuoto prima di lanciarsi, ai trapezisti in un circo, agli acrobati e ad altri ed altri ancora. Ciò che accomuna tutte queste figure è l’incredibile serietà e la concentrazione che li accompagna prima di compiere la loro “performance”. Essi sanno benissimo che basterebbe un minimo di esitazione, un attimo d’incertezza, perché tutti i loro sforzi risultassero vani. Eppure, potremmo dire che la loro arte – e forse anche la magia che rende i loro gesti così mirabili – si gioca proprio in quei pochi momenti che precedono l’atto. Essi sanno di perdere qualcosa - non fosse altro che per il breve spazio della loro acrobazia – il misero sostegno che li teneva ancorati alla propria sicurezza. E che cos’è questa se non “follia”? Ma non potremmo dire lo stesso del bambino che muove i suoi primi passi? Anche lui deve lasciare andare la manina che lo trattiene alla sedia per potersi muovere ed imparare a camminare. Ecco, questa della perdita, mi sembra una parte importante per ogni processo di apprendimento che si rispetti. Non c’è apprendimento, infatti, senza prima un sentimento di perdita, di sfiducia, a tratti anche di sconfitta. Il bambino perde la certezza del sostegno per imparare a camminare, passando anche attraverso la caduta, il senso del fallimento, la ripartenza. In realtà, credo che per imparare a conquistare l’equilibrio, l’equilibrista, debba per forza di cose imparare a padroneggiare il “disequilibrio”, cioè quella sensazione di vuoto e di incertezza che si manifesta ad ogni passo, ad ogni minimo sommovimento della corda. E così siamo noi, mi verrebbe da dire, in questo particolare momento storico, equilibristi della sorte umana, chiamati a muoverci in un contesto nuovo, di cui non conosciamo del tutto le regole, di cui ci arrivano a tratti notizie frammentarie, tra dottori e politologi, economisti ed epidemiologi, scienziati e tuttologi. Siamo costretti a muoverci incerti, dovendo imparare a convivere con il disequilibrio, tra la frustrazione di una notizia attesa e disattesa, tra una novità annunciata e poi ritrattata. Siamo come quel bambino prima di compiere il primo passo, desiderosi di riconquistare il movimento, incapaci però di stabilire il come e il quando.
In tutto questo, che ruolo gioca oggi l’artista? Ha ancora senso parlare di “ruolo dell’arte” in uno scenario così mutato, dove i luoghi stessi deputati alla sua sopravvivenza sono chiusi, sequestrati, messi al bando? Ma non è poi questo, alla fine, il ruolo dell’arte, cioè quello di giocare d’anticipo sui tempi, osando, comprendendo, re-inventando? E così molti di noi stanno facendo, reinventandosi in alcuni casi dei mestieri, cercando di rimanere a galla, nonostante tutto, nonostante l’impossibilità di incontrarsi, di esibirsi, di fare gruppo. Come l’equilibrista che gioca d’azzardo con l’altezza e sfida le leggi della fisica attraverso il proprio corpo, così oggi ognuno di noi è chiamato a compiere quel primo passo, a perdere la sicurezza del proprio ancoraggio e a valicare un confine. Un confine della mente ma anche un confine sociale e culturale, quello che ci vuole schiacciati entro un presente di impotenza e un futuro di incertezza. Proprio ora che il confine sembra quanto mai bloccato, che la via d’uscita sembra impossibile, l’artista, con il suo estro e il suo pizzico di follia, sta lì a ricordarci dove sia il limite e il suo superamento.
"Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste." (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal)
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